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Marcello Marchesi: l'ultimo dei battutisti


 

​«Mio papà, Marcello Marchesi, ha 64 anni e la mia mamma, Enrichetta, che poi sarebbe la sua metà, ne ha 32… Sembra un uomo preciso ed equilibrato. Ma non è così... Intanto il mio papà è un umorista che deve essere una cosa non tanto per la quale… A me nonostante tutte queste brutte cose, il mio papà mi sta simpatico». Questa è l’introduzione surreale di retrocoperta, che avrebbe dovuto scrivere Massimo Stefano Marchesi, un bambino poco più che in fasce, per il suo geniale papà che nel 1977, un anno prima di morire, dava alle stampe l’ultima raccolta di racconti, Sette zie (Rusconi). L’ennesima opera esilarante e lascito finale del principe degli umoristi o il massimo «sloganatore», come amava autodefinirsi, Marcello Marchesi. Forse uno dei rari autori a tutto tondo del nostro ’900 (insieme a Ennio Flaiano) che, con lo spirito di un Voltaire, ha compreso fino all’ultimo vitalissimo respiro che l’intelligenza va fatta sorridere e per questo ammetteva candido ed ilare: «Ogni nuovo libro danneggia quelli usciti. Che rimorso, rubare un solo lettore ai classici». Battutaro, battutista, semplicemente un autentico battitore libero. Un eclettico da 3D prima che fosse inventato, nato con il baffo, l’ombrello e la bombetta, stile british, cento anni fa – 4 aprile 1912 – a Milano. Da bambino si trasferì da uno zio a Roma, restandoci fino alla maggiore età. Tornato a Milano, prese una laurea in Giurisprudenza, da richiudere prontamente nel cassetto per assecondare la «malattia» di una creatività superba e mordace che Andrea Rizzoli, figlio del grande editore Angelo, fu il primo a diagnosticare una sera al Teatro Lirico, mettendolo subito sotto contratto per Il Bertoldo. Il settimanale (originariamente bisettimanale) antagonista del romano Marc’Aurelio, dove Marchesi aveva collaborato insieme a quello che sarebbe diventato il suo grande socio e mentore ispirativo, Vittorio Metz – al quale «diedi sempre del lei», ricordava ...


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